«La Repubblica», 12 Marzo 2017
Paolo Zellini
Siamo uomini o algoritmi?
Prima puntata
In futuro saranno gli algoritmi a governarci? Oggi non c’è cosa che non ci rimandi a questa questione: dalle tecniche industriali alla diagnostica medica, dai social network al volo degli aerei, dai big data ai motori di ricerca di Google e di Yahoo! ci affidiamo, consapevoli o no, a complesse procedure, gli algoritmi appunto, a cui deleghiamo la buona riuscita di operazioni che gli esseri umani, da soli, non saprebbero eseguire. Un recente articolo dell’Economist ci avverte che, in futuro, i computer diventeranno apprezzabili assistenti degli psichiatri, imparando a decifrare i pensieri che si celano dietro le nostre espressioni facciali. Una conferma del possibile impiego degli algoritmi nella medicina già immaginata da Isaac Asimov, da Arthur C. Clarke e da Gene Roddenberry, dalla cui fantasia furono concepiti gli ologrammi medici in Star Trek: Voyager.
Ma che cosa è un algoritmo? Anzitutto, l’algoritmo è un processo, una sequenza di operazioni che deve soddisfare almeno due requisiti: a ogni passo della sequenza è già deciso, in modo deterministico, quale sarà il passo successivo, e la sequenza deve essere effettiva, cioè tendere a un risultato concreto, reale e virtualmente utile. L’effettività è la connotazione più essenziale e più ardua da definire. Ha certamente a che fare con la circostanza che le operazioni comportano un tempo di esecuzione e l’occupazione di uno spazio di memoria del computer. Dunque esse esistono anche nello spazio e nel tempo fisici e non sono assimilabili a una mera espressione aritmetica. Ma proprio questo suo carattere ibrido, tra astrazione matematica e fisicità del computer, rende l’algoritmo particolarmente attraente. Non siamo di fronte a un ente solamente ideale, ontologicamente dubbio, ma a qualcosa che potrebbe rivendicare un carattere di piena realtà; anche se, occorre precisare, la delega delle nostre decisioni agli algoritmi si basa su complesse teorie e su strutture matematiche relativamente astratte. Noi pretendiamo per lo più di ignorarle, pur continuando a fregiarci della qualifica di esseri razionali, e parliamo di algoritmi come se fossero entità perfettamente note.
Da più di un secolo sappiamo che il concetto di algoritmo poggia, innanzitutto, sulla serie dei numeri naturali con cui contiamo cose e persone. Ora il grande antropologo Marcel Mauss aveva già notato che, nell’organizzazione di una società, esistono cose e persone in senso fisico o materiale prima, numerico poi, e che da epoche remote sono i numeri a costituire la base della morfologia sociale. Gli algoritmi non fanno che estendere le funzioni rituali di controllo e di ripartizione dei numeri in modi che possono diventare inaccessibili, autoritari e categorici, uno strumento utile alla società ma anche un rischio di sbilanciamento nel delicato rapporto tra categoricità e spontaneità, tra l’estranea imperiosità del meccanismo e la libertà di coscienza. Ognuno di noi ha modo di percepire la durezza e il potere di questa imposizione algoritmica, di questo calcolo che governa la nostra vocazione collettiva e gregaria.
Ma che relazione c’è tra la realtà (l’effettività) dell’algoritmo e la realtà umana? Sully, l’ultimo film di Clint Eastwood, può aiutare a capirlo. Il tema centrale del film è l’eroismo di Chesley Sullenberger, il provetto pilota che il 15 gennaio 2009 salvò davvero i centocinquanta passeggeri e l’equipaggio di un aereo, decidendo di ammarare sulle acque ghiacciate del fiume Hudson poco dopo il decollo, per un’improvvisa avaria dei motori causata da uno scontro con uno stormo di uccelli. Oggi, in realtà, gli aerei possono atterrare senza che il pilota neppure sfiori i comandi. I dati che individuano le condizioni atmosferiche, la posizione e la velocità dell’aereo, sono automaticamente demandati a un congegno, il cosiddetto filtro di Kalman-Bucy, che si serve di complessi algoritmi numerici per individuare la manovra più idonea ed efficace. E simili tecniche si applicano anche al volo dei missili e alle traiettorie dei satelliti, grazie ai più avanzati algoritmi per il trattamento di immagini. Ma Sully, avendo preso lui stesso, responsabilmente, il controllo dell’aereo, dovrà poi rispondere alle critiche sollevate dal National Transportation Board, perché le successive simulazioni di volo dimostreranno che sarebbe stato possibile atterrare su una pista regolare, anche in assenza di spinta, con minor rischio per i passeggeri e minor danno per il velivolo. Insomma gli algoritmi su cui si basano le simulazioni di volo decreteranno, con la loro effettività e perentorietà, il comportamento che un “uomo razionale” avrebbe dovuto assumere. Ma chi ha più ragione, l’eroe in carne e ossa, con i suoi tempi di reazione e di decisione, o quello affatto indifferente e razionale della simulazione algoritmica?
Nel film di Eastwood l’autorità che deve giudicare sull’operato di Sullenberger si appella agli algoritmi che assicurano che l’aereo avrebbe fatto in tempo ad atterrare a La Guardia. Tuttavia la stessa simulazione ignora il fattore umano, ovvero quei trentacinque secondi necessari al pilota per capire la situazione e prendere una decisione responsabile. Inserendo nel programma quella manciata di secondi il risultato non è più lo stesso, la simulazione dà ragione a Sully, che si conferma l’eroe che ha preso per istinto l’unica decisione possibile, l’ammaraggio sull’Hudson.
Ma, al di là del trauma dell’incidente, qual è la ragione del tormento che affligge il generoso comandante? In fondo è pur sempre ancora sull’algoritmo che si basa il giudizio finale del National Transportation Board sull’operato del pilota. Senza una simulazione convincente, aggiornata coi dati della reazione umana, il pilota non avrebbe modo di far valere le sue ragioni. Si intravede allora, a questo punto, una virtuale iterazione, una ripetizione senza fine in cui si riconfigura ogni volta il divario tra realtà umana e realtà algoritmica. Infatti tutto ciò che fa l’algoritmo lascia fuori di sé una domanda sulla natura più intima dell’uomo e sullo stesso algoritmo. Potrà esserci una nuova procedura meccanica più perfezionata che ci aiuti a rispondere a tale questione, ma ci sarà sempre una domanda inevasa sul carattere precipuo della nostra identità e del nostro discernimento.
Sully vive drammaticamente quella fatale dicotomia tra meccanismo e coscienza che è stata spiegata da sempre, in diverse tradizioni e con varie modalità, e che rimane oggi una delle questioni cruciali della filosofia e della scienza del calcolo. Anche in presenza dei più perfezionati algoritmi l’uomo rimanda sempre a qualcosa di esterno al loro meccanismo, a una responsabilità e a una libertà radicale che forse non esiste neppure, e che coincide infine con quella essenziale incompletezza che la tradizione filosofica e sapienziale, come pure le ricerche sulla natura della coscienza, hanno ontologicamente identificato come l’essenza stessa dell’uomo. Sully, e con lui lo spettatore, si affacciano su questo precipizio, dove la matematica e la vita sembrano incontrarsi e confondersi. – 1. continua.